Perché si uccide?
Di Caterina Grillone – Avv. Criminologa (studiolegalegrillone@tiscali.it)
Nella maggior parte delle biografie degli assassini seriali, si nota l’enorme difficoltà che hanno queste persone a rapportarsi con il prossimo. Questi rapporti comunicativi distorti sono sempre il frutto di problemi relazionali insorti durante l’infanzia e l’adolescenza del soggetto. Le caratteristiche comportamentali e le influenze ambientali permettono ai successivi modelli, normali e patologici, di emergere durante l’età adulta. C’è chi uccide per soldi, chi perché non riesce a sopportare il peso di una responsabilità, chi per amore, chi per colpa di una relazione finita tragicamente. Ma c’è anche chi uccide solo per vedere che effetto fa. In Europa sempre più giovani commettono crimini assurdi. Una gioventù la cui legge è “il disprezzo di ogni legge, la sua caratteristica sociale il disprezzo di ogni società nel trionfo dell’individuo audace, cinico, privo di rimorsi, nel vittorioso culto di sé”.
Non è il bisogno o l’ineguaglianza sociale a spingere al crimine questi giovani, “bensì il desiderio di compiere gesti eccezionali, di emergere, di sentirsi protagonisti di gialli, fumetti, film di gangsters. I media poi hanno amplificato e spettacolarizzato questi “miti”. E oggi, proprio per via dei media, tutta la popolazione gioca a fare il detective, a dare la caccia all’uomo”. Anche in Italia non mancano i casi. Anzi, siamo al quarto posto dopo Stati Uniti, Inghilterra e Germania. Una delle caratteristiche principali del fenomeno è proprio che gli omicidi seriali si verificano maggiormente nei Paesi industrializzati.
La personalità del fanciullo e le sue reazioni sociali si sviluppano proprio sullo sfondo del clima generale della famiglia. L’infanzia è un momento fondamentale per la salute fisica e mentale del futuro adulto ed è molto importante la formazione di un buon “legame di attaccamento” fra il bambino e chi si prende cura di lui. Con il procedere della costruzione del legame, il bambino s’identifica e cerca attivamente il contatto con i genitori o con chi ne fa le veci. La frantumazione o la mancata formazione del “legame di attaccamento”, può produrre un bambino – ed un futuro adulto- incapace di provare empatia, affetto o rimorso per un altro essere umano, caratteristiche queste comuni anche agli assassini. Il gruppo di coetanei, nell’ambito della fase adolescenziale rappresenta un sistema di transizione che conduce il minore o il giovane verso la maturazione di un “io”, all’interno di un determinato ambito culturale. Il gruppo è dunque il collegamento che determina il passaggio dall’infanzia all’età adulta e quindi dalla famiglia alla società.
Il processo attraverso il quale si diventa assassini seriali passa attraverso tre fasi. La prima è l’autoprotezione; il bambino rifiuta di vivere la propria angoscia, nasconde i suoi sentimenti, si isola. La seconda è la rimozione; le angosce vengono trasferite nell’inconscio, dove giacciono dimenticate, ma attivissime. La terza è la proiezione; si addossa, cioè, ad altri la colpa della propria angoscia. L’assassino strazia ed uccide perché vede nella vittima l’origine dei propri mali. Al sollievo momentaneo, procurato dalle sevizie e dalla morte, segue una nuova crisi di angoscia dove si riaccende il desiderio di punire. Abitualmente i loro sono crimini apparentemente immotivati. E proprio per questo motivo il più delle volte vengono identificati come dei “mostri”. Sballarsi significa fuggire da una realtà avvertita come pesante, da una vita nauseante. Si ricerca il massimo divertimento nella massima perdita di controllo: ma questa non porta a un vero godimento, in realtà chi “si sballa” in molti casi avverte un senso di tristezza. La nostra società, sempre più all’insegna del consumismo ma sempre più povera, sta esplodendo. E il sintomo di questa profonda trasformazione in atto è la violenza e il modo in cui si estrinseca attraverso forme variegate, ma concentrate in alcuni momenti più che in altri come se si innescasse anche un effetto imitativo a diversi livelli sociali in una sorta di spirale in cui l’aggressività dell’uno si potenzia specchiandosi nell’aggressività dell’altro”.
La comprensione dell’atto criminale non può essere disgiunta dal tentativo di fornire una spiegazione dinamica dell’atto stesso. L’agito criminale (soprattutto nei casi di delitti di cui sia difficile reperire un movente comprensibile) può essere espressione di una formazione di compromesso, un derivato di un conflitto interno o di una rappresentazione mentale distorta di cui il reato diviene manifestazione concreta. L’agito non è mai un evento incontrollato, anzi riconosce in sé un succedersi di azioni organizzate per cui non è tanto l’intensità della scarica motoria a definirlo come “messa in atto” quanto il fatto che vengono scaricate, in modo mascherato, pulsioni aggressive e distruttive su un oggetto sostitutivo. è in questo modo che si possono avere “messe in atto” estremamente aggressive; la messa in atto è sovente preceduta da una vita intera di rimuginazioni, fantasie inconfessabili, desideri perversi. è come se il soggetto, vissuta una vita intera in una dimensione scissionale, esteriormente normale ma interiormente dominata e popolata da fantasie rivendicative particolarmente connotate in senso sadico e violento, cedesse all’impulso di “dare fiato” alle proprie istanze interiori. I soggetti che presentano un disturbo antisociale di personalità hanno un comportamento caratterizzato da frequenti atti di aggressività e di intolleranza per le norme sociali. Inoltre tendono ad essere insensibili ai sentimenti altrui e intolleranti alle frustrazioni a cui rispondono con violenza; sono temerari e negligenti per quanto riguarda la propria sicurezza e quella degli altri e raramente sono in grado di mantenere delle relazioni stabili nel tempo. Bisogna quindi lavorare per prevenire l’instaurarsi di questi processi involutivi nella coscienza del soggetto deviante e ciò è senz’altro possibile, in presenza di personalità in formazione e non ancora stabilmente organizzate come quelle degli adolescenti. è dunque particolarmente importante effettuare un intervento che consenta all’adolescente di far leva sulle proprie risorse e di costruire un proprio percorso di vita soddisfacente, senza dover far ricorso a modalità violente per stabilire relazioni interpersonali, e risulta altresì importante che l’ambiente diventi capace di accogliere e contenere la crisi evolutiva: attraverso adeguati rapporti si può restituire all’adolescente la fiducia nella possibilità di comprendere il significato simbolico dei propri atti violenti e di risolvere i propri conflitti interni.