Generazione 3.0: paradossi digitali
Sono bastati 20 anni per trasformare biblioteche, giornali, videoteche e archivi storici in una SIM. Un oggettino di uno o due centimetri, che contiene milioni di immagini e dati, con un evidente risparmio di spazio e tempi velocissimi di ricerca. Un cambiamento epocale paragonabile a quello di fine Ottocento, quando la scienza ha compiuto passi da gigante, rivoluzionando il concetto stesso di società industriale e modificando linguaggi, pensiero e percezione della realtà.
Tanto che oggi siamo meno disposti all’ascolto e al confronto. Parliamo e incontriamo i nostri amici in modo virtuale, cioè immaginario, non reale. Così come capita sempre più spesso di vedere giovani che “dialogano” fra loro scrivendosi messaggi su Whatsapp, anziché parlarsi direttamente. E, per la verità, questa tendenza è invalsa anche tra gli adulti. Uno stile di vita che genera almeno due grandi problemi: abbiamo disimparato a leggere, perché siamo diventati frettolosi, impazienti e il nostro “sapere” si forma con Google e Wikipedia. Il risultato è sconfortante: non saper leggere significa non saper scrivere nella propria lingua e argomentare ad alta voce diventa davvero difficile. Ma sono tanti i paradossi dell’era digitale. A cominciare da quel canone di circa 12 euro che tutti paghiamo (quale che sia il nostro operatore telefonico) a Telecom. Una somma che la società telefonica italiana dovrebbe investire per la manutenzione della rete. Mentre, chi usa Internet sa bene che la connessione veloce è appannaggio di pochi fortunati. Insomma, il nostro pensiero è digitale, ma la crescita del Paese reale è ancora… medievale.