Disoccupazione e suicidi: l’analisi della criminologa Grillone
È di pochi giorni fa la drammatica notizia: l’ennesimo disoccupato si toglie la vita perché non riesce ad inserirsi nel mondo del lavoro. L’uomo cerca di realizzarsi nella sua vita. Ma realizzarsi nella vita cosa significa? Potremmo provare a fare un elenco interminabile di condizioni essenziali che avvicini l’uomo alla sua realizzazione ma ciò che più conta in questa lista infinita, ciò che mettiamo al primo posto è il lavoro. Solo lavorando l’uomo si realizza perché amore, le gioie, i soldi, la felicità, i sogni vengono sempre dopo. Il lavoro è la cosa che oggi, in questa società che va di corsa senza mai voltarsi, è necessario, indispensabile. Il lavoro che farebbe di lui un uomo felice con la ragazza che ama.
Ma i continui “no”, i continui “ripassi più avanti”, gli sconfortanti “le faremo sapere” incidono sulla sua autostima e sprofonda a poco a poco nell’incubo di una depressione, dalla quale non riuscirà più a risalire. Per l’essere umano il lavoro è un istinto, una pulsione, un bisogno, quasi come il mangiare, il bere, il fare l’amore. Vivendo in gruppo, ciascuno è portato ad esercitare le proprie capacità, le proprie competenze, al fine di raggiungere qualcosa di apprezzabile, a livello personale, ma soprattutto sociale. L’apprezzamento sociale è infatti fondamentale, perché è in gran parte attraverso di esso che la persona costruisce la sua autostima, se non tenesse conto del giudizio degli altri, ma solo delle sue autovalutazioni, saremmo infatti di fronte ad una sorta di delirio. Oggi il lavoro è una fonte di ruoli; i ruoli sociali. Questi servono per il nostro rapporto con gli altri, e questi altri si pongono verso di noi servendosi della conoscenza che hanno del nostro ruolo sociale. É per questo che, in una parola, il lavoro dà la dignità. Sentirsi capaci di fare qualcosa che gli altri apprezzano riempie di significato la propria vita, permette alla persona di avere considerazione di sé e induce a mettere in atto dei comportamenti responsabili, misurati, equilibrati.
Il lavoratore, in forza della sua appartenenza sociale e del reddito che gli procura il lavoro, può fare progetti, programmi per il futuro, che gli permettono perfino di superare il peso delle eventuali congiunture sfavorevoli che talvolta si trova ad attraversare, perché attraverso il lavoro può sperare di migliorare le proprie competenze, approfondire e allargare la sua rete di supporto sociale e magari aspirare ad un cambiamento del lavoro stesso. É il lavoro dunque che ci permette di diventare chi siamo, che contribuisce a migliorare la nostra vita e, quando il lavoro che svolgiamo ci piace, il che accade molto più frequentemente di quanto non si pensi, esso diventa anche una delle componenti più importanti della nostra felicità. Il dato prevalente è che il lavoro in Italia manca. Una scarsità che porta sempre più persone, impaurite dalla prospettiva di perderlo o di non trovarlo, a condividere l’idea che nulla sia più come è stato finora: dignità, diritti, salute finiscono così in secondo piano. Si tratta di una deriva preoccupante messa in moto dal perdurare di una crisi economica stabilmente severa, da una disoccupazione che tocca diversi segmenti anagrafici e demografici, i giovani, le donne e gli ultracinquantenni, e da un cambiamento tecnologico che da più parti viene definito in termini di quarta rivoluzione industriale. In verità tutto ciò contravviene con quanto voluto dai padri nel 1948 nella nostra Costituzione Italiana. Il lavoro e un diritto inalienabile dell’ uomo. Chi sono in Italia i maggiori disagiati e le vittime più colpite? Semplice: neo diplomati e cinquantenni, non bisogna essere dei geni per intuirne motivi, i primi perché senza esperienza e i secondi perché: senectus morbus ipsam est ( la vecchiaia è di per se stessa una malattia).
Ci dobbiamo chiedere perché l’ imprenditore italiano non assume più? Perché delocalizza le sue aziende all’estero. Gli eccessivi costi di gestione, la trasformazione, la concorrenza sleale, la congiuntura economica, la egemonia della banca centrale Europea hanno prodotto questa diaspora per altri lidi, la nostra Italia da paese industrializzato diventa società di servizi. Tutti questi episodi, messi insieme e letti in sequenza, indicano l’accelerazione, un’accelerazione netta, di un processo iniziato anni fa e da tempo segnalato da tutti gli analisti: le grandi imprese private italiane, spina dorsale di quel che resta dell’industria nazionale, stanno diventando la succursale di colossi globali con interessi e centri decisionali distanti migliaia di chilometri dalla Penisola. Sarebbe difficile convincere l’imprenditore italiano ad investire in patria se nella nazione confinante c’è un’offerta di lavoro a prezzi di saldo. Ed è qui che il disoccupato o il precario inizia il suo calvario, le speranze si tramutano in delusioni, l’attesa è esasperante, i sogni subiscono la peggiore delle metamorfosi si tramutano in incubi. Labile è il confine tra razionalità e irrazionalità, ma se di mezzo ce la disperazione, ha pagarne sono i soggetti più deboli. Una realtà cinica che privilegia la normalità alla sensibilità, un mondo del lavoro che non ha saputo offrirgli lo spazio che avrebbe meritato, un genere femminile che non ha voluto ricambiare i suoi desideri, uno Stato che non ha saputo valorizzare i suoi giovani. Michele non ha trovato il mondo che voleva e che riteneva gli fosse dovuto (“Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato”). Chi dovrà rispondere della sua morte? Riposa in pace giovane amico, noi non siamo degni di te, che in onore e dignità volevi vivere. Le mani sporche profumano di dignità. Ci vuole coraggio, Amico mio, a fare questa vita, ma ogni piccolo traguardo raggiunto ha un valore indescrivibile…