Tv e tablet, la dipendenza del terzo millennio
Posted On 20 marzo 2017
0
351 Views
0 La nostra società pare fatta apposta per scatenare tensioni. I figli rimangono in casa molto più a lungo rispetto a quanto non facessero i loro genitori. I ragazzi ce la mettono sempre tutta e se gli adulti evitassero di sommergerli di attenzioni e smettessero di sostituirsi a loro con la loro personalità avrebbero più possibilità di diventare adulti meno infelici dei loro padri. Si tratta di una costrizione innaturale e forzosa dettata da meccanismi economici e sociali che stanno divenendo sempre più patologici. Emerge che le tensioni insanabili nelle famiglie sono molto diffuse e che il pensiero e il desiderio di uccidere, eliminare, distruggere è più frequente di ciò che la morale benpensante potrebbe supporre.
Anche se da noi la dipendenza da Internet non è ancora considerata una patologia, non c’è dubbio che i giovani passino troppe ore davanti a smartphone, tablet, televisione: è la dipendenza del terzo millennio, il fenomeno degli hikikomori, quella a cui rischiano di andare incontro i giovani d’oggi. L’abuso di videogiochi è in vertiginoso aumento. E questo eccesso può danneggiare il loro sviluppo. La televisione rimane il dispositivo più usato, ma computer, tablet e cellulari la stanno gradualmente sorpassando. La preoccupazione si concentra sulla possibilità di
dipendenza e sull’esposizione alla violenza. Non mancano poi correlazioni con disturbi del sonno, isolamento, aggressività, obesità, ansia e depressione. E conseguenze negative su attenzione, controllo degli impulsi, tolleranza alla frustrazione. Ciò di cui si parla meno forse è che giocare su uno schermo (cellulare, tablet o consolle) è da considerarsi fattore di stress psicologico con effetti fisiologici di una certa entità. La maggior parte dei genitori dà poche regole rispetto all’uso dei mezzi digitali da parte dei bambini e degli adolescenti. I genitori sono grati a questi dispositivi per il modo in cui calmano i loro bambini, ma sono ignari del danno potenziale che possono subire nel passare così tante ore in un mondo virtuale. Mettiamo i bambini davanti agli schermi per tutto il giorno, pensando di dargli una distrazione, anziché insegnargli come tranquillizzarsi e calmarsi. Il gioco o qualunque altra attività sullo schermo è un tempo sottratto a esperienze reali, a interazioni sociali, al gioco libero e spontaneo, alla possibilità di muoversi, esprimersi secondo modalità non programmate. I piccoli hanno bisogno di fantasticare, di gestire le loro ansie, di affrontare le loro paure e condividerle con i genitori affinché possano rassicurarli. Riscontri che dovrebbero indurre a rivedere i modelli educativi moderni. Offrire esperienze ai nostri figli, allargarle ma non approfondirle, sta diventando la norma nel nostro vivere iperconnesso.
Così il rapporto infanzia- società si capovolge in una maniera bizzarra per cui si hanno bambini come piccoli adulti e adulti che si comportano in maniera infantile, che giocano e non vogliono invecchiare. Adulti che devono imparare perché il mondo, con la sua incessante produzione del nuovo, gli è estraneo e l’esperienza accumulata nella loro vita non è sufficiente a renderli competenti. Nel mondo cibernetico di oggi, i bambini sono esposti a messaggi che insegnano apatia, non empatia. La connessione intima, autentica sta diventando sempre più difficile. Instaurano rapporti numerosi, estesi, fatti di rapidi e brevi scambi a scapito di profondità e intensità. Sono sedotti da una miriade di semplificazioni, gratificazioni immediate con click dispensatori di dopamina, ma rischiano di privarsi della possibilità di costruire legami attraverso i quali imparare a essere pienamente presenti, acquisire fiducia, comprensione, profondo senso di connessione; a impegnarsi, giocare guardandosi negli occhi. Per questo il tempo dei videogiochi per i bambini andrebbe confinato tra esperienze creative reali. Gli esseri umani sono programmati per la socialità e la compagnia, l’affetto e l’attaccamento. La tecnologia è un surrogato scadente delle interazioni personali. Uno dei rischi maggiori è per i bambini che si dedicano ai videogiochi violenti: passare troppo tempo a giocare ad ammazzare e sparare a persone virtuali può renderli inclini alla violenza. Così si sviluppano comportamenti aggressivi e pericolosi per sé e per gli altri e non si favoriscono invece i processi di empatia. Alla fine molti di questi percepiscono il mondo reale come falso. Nell’ambito pedagogico tutta l’educazione moderna e soprattutto contemporanea ha cercato di perseguire la libertà come mezzo e come fine educativo. La libertà coincide con il trovare le risposte ai bisogni infantili, fornire mezzi per la conquista dell’indipendenza.
Liberare non vuol dire abbandonare il bambino a se stesso, non vuol dire libertà dell’indifferenza di fronte alla quale tutto è uguale a tutto, ma poi niente è uguale a se stesso. I bambini lasciati liberi da ogni vincolo si sentono abbandonati, delusi da una libertà che assume il volto indesiderabile dell’indifferenza. Per diventare creativi e affrontare la vita con coraggio non si ha bisogno di tastiere, video e playstation ma di gioco libero tra coetanei. Insomma, spiegano gli esperti, i videogiochi molto spesso non sono la causa del ritiro sociale dei figli, bensì l’effetto di un isolamento causato a sua volta da molteplici motivazioni, tra cui l’incapacità dei genitori di relazionarsi con i figli. Un dettaglio che rende ancora più inquietante l’accaduto e che lascia aperta una marea di perch. Un figlio che si può trasformare in una macchina che produce morte. Perché un figlio arriva a odiare così tanto un genitore da volerlo uccidere? Le condizioni psichiatriche che più facilmente possono portare all’uccisione dei genitori sono: i disturbi mentali dell’età evolutiva, i disturbi mentali su base organica, le psicosi, i disturbi dell’umore, i disturbi di personalità. La maggior parte dei giovanissimi omicidi presenta disturbi mentali dell’età evolutiva, diagnosticati per la prima volta nell’infanzia, nella fanciullezza e nell’adolescenza. Gli omicidi sono eseguiti con grande freddezza e senza una motivazione. Possono essere compiuti sorridendo, senza la percezione del danno che si provoca. Le vittime sono spesso i genitori, su cui si riversa la rabbia di sentirsi dipendenti da loro o la patologica convinzione che essi siano responsabili delle sofferenze che si patiscono. Tali soggetti vivono una esistenza otalmente astratta ed anaffettiva, rigidamente corazzati in un falso sé nei rapporti interpersonali; coi genitori mantengono un falso rapporto di accordo che si altera nel corso degli anni, seguendo una certa dinamica per cui, a grosse delusioni nel rapporto, il soggetto si adatta senza manifestare esternamente odio e rabbia; il tacito accordo tra genitori deludenti e figlio anaffettivo può anche dar luogo a situazioni apparentemente idilliache o esemplari, tali da fornire all’esterno un quadro di reciproca soddisfazione e da rendere il doppio delitto “inesplicabile”. La famiglia prepara alla vita la sua prole, fa da tramite tra i suoi membri ed il resto della società, mediando tra i bisogni di ciascun membro e le direttive della società. Quindi i modi dei genitori e della famiglia sono il modo di vita, prima nel bambino e poi nel giovane adolescente.
A cura di Caterina Grillone – Avv. Criminologa