Eutanasia: non è la morte in sé che fa paura…
In ognuno di noi lo spettacolo della morte altrui suscita disagio perché ci ricorda, a sua volta, il nostro destino. La morte non ha mai smesso di esserci. Nel nostro percorso di vita è molto probabile che prima o poi si venga interrogati su un tema molto sensibile come quello della morte. Con la morte, termina l’esistenza di un vivente. La morte non può essere definita se non in relazione alla vita. La paura di morire nasce principalmente dal nostro desiderio positivo di vivere, di esserci, di esistere. Il punto è che non è la morte che fa paura, ma cosa ne pensi tu, il significato che gli dai, come la vivi e la immagini. Disse William Shakespeare: “Potrei vivere nel guscio di una noce e credermi re d’uno spazio infinito, se non fosse per certi cattivi sogni. (Amleto, Atto II. Scena II).
Ciò insegna a non avere paura della morte perché è un atto naturale, da non temere, da non nascondere. Ma da considerare con umiltà, semplicità, perché anche nell’ultimo istante di vita è racchiuso un nucleo prezioso che arricchisce l’anima di chi rimane. Nelle ultime settimane il tema dell’eutanasia è stato spesso al centro del dibattito internazionale, e numerosi Paesi hanno colto l’occasione per fare il punto della situazione e per riprendere le discussioni a livello etico, culturale e anche legislativo.
Intorno al problema dell’eutanasia esiste ancora molta confusione determinata da malintesi, a volte intenzionali, sul significato dei termini utilizzati; malintesi relativi alla stessa definizione del concetto di “eutanasia”, sul cui significato ritengo necessario soffermarci brevemente. La definizione di eutanasia ormai da tutti accettata è quella proposta il 5 Maggio 1980 dalla Dichiarazione della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede: “per eutanasia s’intende un’ azione o una omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare il dolore”. In altre parole, si tratta di una morte inflitta o attraverso un’azione diretta o attraverso l’ omissione di un intervento dovuto e capace di sostenere la vita. Si pratica l’eutanasia in Messico, in Spagna, in Cina, in Belgio, negli Stati Uniti. E in Italia il dibattito prosegue da anni. La medicina e il diritto, infatti, avrebbero già risolto i loro problemi: la prima indicando “se, come e quando” praticare l’eutanasia, la seconda cercando di “definire la legittimità della procedura”. Di fatto, la possibilità di ritardare con ogni mezzo e ad ogni costo il momento della morte può facilmente determinare un atteggiamento di accanimento terapeutico; così come il desiderio di interrompere le sofferenze, che inevitabilmente accompagnano le fasi terminali della vita, può indurre ad una richiesta di eutanasia. Quanto detto ci lascia già intravedere l’ estrema complessità del problema e la difficoltà, anche per il medico più esperto, a fornire risposte esaurienti e, soprattutto, a proporre modelli operativi sufficienti per evitare, in ogni caso, scelte terapeutiche errate. Proprio per questo motivo, dobbiamo sempre ricordare che il dovere del medico è quello di curare il malato e non la malattia. L’eutanasia o morte assistita, infine, negano l’impegno che i neo medici si assumono attraverso il Giuramento di Ippocrate: “Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio…”.
Teniamo conto che il Giuramento risale al 420 a.C. Il medico che riesce a mantenere un rapporto personale con il paziente difficilmente corre il rischio di prendere decisioni tali da configurare un atteggiamento di accanimento terapeutico: è proprio il rapporto personale, infatti, che consente di evitare il ricorso di terapie sproporzionate, inutili, addirittura dannose. Perché se fra medico e paziente c’è quella compressione, quella vicinanza e quella compassione che sempre dovrebbero esserci tra chi soffre e chi lo assiste, le polemiche perdono di significato. Se è curato bene, con calore, con solidarietà, con affetto, difficilmente il malato arriva a chiedere di farla finita. Ed anche noi siamo certamente contrari a quel processo di medicalizzazione delle fasi terminali della vita che sempre più caratterizza le prassi assistenziali dei paesi ad elevata tecnologia. Processo di medicalizzazione che inizia proprio con il ricovero in ospedale e l’allontanamento dalla famiglia verso un isolamento completo, alienante, privo di rapporti affettivi, totalmente spersonalizzante. Altro aspetto controverso dell’ eutanasia è quello relativo al tipo di paziente al quale essa è teoricamente rivolta e suscettibile di essere applicata.
Come è noto nella maggior parte dei casi l’ eutanasia viene invocata per i cosiddetti “ammalati in condizioni terminali irreversibili”. Ed è proprio per questo motivo che ritengo doverosa una breve riflessione sul significato del termine “malato terminale”. Anzitutto, non è possibile definire “terminali” tutti i pazienti inguaribili per i quali non è più possibile attuare terapie dirette a rimuovere la causa, ma solo trattamenti “sintomatici” o “palliativi”; questa definizione è troppo generica, perché non considera l’ evoluzione cronologica della malattia, né la capacità della terapia di influenzarne il decorso, elementi essenziali per precisare i confini tra una terapia proporzionata ed una terapia sproporzionata, e quindi inutile, che sconfini nell’ accanimento terapeutico. L’ eutanasia, il controllo forzato delle nascite – ottenuto persino con l’ infanticidio e tante altre manifestazioni che la vita moderna privilegia, dipendono dalla scelta di una di queste due strade. Vi è però l’ alternativa, e cioè la scelta della solidarietà con coloro che si trovano in maggiori difficoltà come gli ammalati, i deboli, gli emarginati.
Questa solidarietà si accompagna all’impegno per un ulteriore progresso scientifico che consenta di trovare la vera soluzione di fronte alle malattie croniche che tuttora affliggono l’umanità. In Belgio è stata praticata l’eutanasia su un minorenne, un ragazzino di 17 anni malato terminale. È il primo caso al mondo per un paziente che ha meno di 18 anni e la procedura è stata possibile grazie a una legge approvata nel 2014. Il caso belga finisce coll’attuare un principio particolarmente deleterio perché estende l’eutanasia, già di per sé inaccettabile, ad una vicenda di estreme fragilità in cui si misura la dignità di un soggetto con il metro di giudizio di chi non incarna direttamente quella dignità. Il diritto all’eutanasia del bambino, altro non significa che attribuire ad un adulto il potere di vita e di morte su un minorenne. Si tratta di una finzione giuridica che contrasta con i principi che presidiano le normative europee a tutela del minore, che mirano piuttosto alla protezione della sua vita e integrità fisica e mai alla sua eliminazione.
L’Europa e i Paesi che come il Belgio l’hanno fondata dovrebbero piuttosto investire risorse e proporre normative sull’accudimento e la cura delle persone più fragili come sono i bambini gravemente malati e non introdurre l’idea che ad un certo punto debbano essere soppressi. L’eutanasia dei bambini è regolata con controlli e restrizioni destinate a far valutare solo situazioni estreme e sempre con l’approvazione dei genitori. Il minore deve esprimere il suo consenso con l’aiuto di uno psicologo. A parte chiedersi quale possa essere stato il livello di consapevolezza e la libertà del minore nell’esprimere il proprio consenso, resta il fatto che la vita umana continua ad essere valutata come un bene strettamente personale, totalmente sganciato da una visione comunitaria e relazionale. Possiamo affermare che qualcuno ha contribuito all’impoverimento culturale e alla mancanza di responsabilità sociale.
Non possiamo educare i nostri figli alla paura della morte. Io credo che dietro vi sia una grande responsabilità, a livello comunicativo, che parte dalla famiglia, che passa dalla scuola, e arriva ai media. A tale distorsione credo si debba assolutamente rimediare. La deriva belga dovrebbe costituire un campanello d’allarme per quanti, forse troppo superficialmente, si apprestano a promuovere la legislazione eutanasica nel Parlamento italiano. Al di là del consenso, delle sofferenze cui si è soggetti, del venir meno del desiderio di continuare ad assaporare la vita nei suoi molteplici aspetti, della “stanchezza” fisica e/o psichica, della sofferenza dolorosa di un malato terminale, o di qualsiasi altro motivo, togliere la vita a un essere umano è, oltre che abominevole, un reato penale. Omicidio .